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31 agosto 2007
Richiesta

Farmacia in impresa familiare con il figlio appena laureato e iscritto all'ordine farmacisti. Vorrei sapere se mio figlio può lavorare nella nostra farmacia e quindi percepire una paga e relativo punteggio per l'idoneità.

Consulenza

I rapporti di lavoro tra genitori e figli rientrano nel più generale problema dei rapporti lavorativi tra familiari e parenti rispetto ai quali l'unica norma positiva di riferimento è l'articolo 230-bis Codice civile, che disciplina appunto l'impresa familiare. La questione però non si esaurisce solo in questo ambito, dal momento che i rapporti possono assumere anche connotati diversi che rientrano in altre discipline giuridiche. I rapporti familiari sono basati sulla presunzione di gratuità, ossia si presume che essi vengano realizzati non per ragioni economiche, ma per motivi di affetto e benevolenza, salvo che tra le parti non vengano presi accordi contrattuali di tipo diverso.
Impresa familiare: l'impresa familiare è la prestazione resa da uno o più familiari di un imprenditore svolta in modo continuativo, senza essere legati cioè da un rapporto di lavoro specifico. Il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa. I familiari partecipanti all'impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi. Al familiare spetta inoltre il diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda. La prelazione può essere esercitata anche individualmente (articolo 732, Codice civile) e ha carattere reale. Per impresa familiare si intende quella in cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Nel novero dei soggetti interessati la giurisprudenza vi ha compreso anche i figli adottivi e affiliati, nonché i minori, mentre ha escluso l'applicabilità della disciplina dell'impresa familiare ai conviventi, soggetti anch'essi alla presunzione di gratuità delle proprie prestazioni. Nell'impresa familiare i rapporti tra imprenditore e familiari però non avvengono negli stessi termini che si stabiliscono nell'ambito delle società: il titolare ha cioè pieni poteri (Cassazione 9897 del 20 giugno 2003). Secondo la Suprema Corte, a differenza dell'impresa collettiva, l'impresa familiare appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno diritto a una quota degli utili, e ciò anche nel caso in cui uno dei beni aziendali sia di proprietà di alcuno di essi. Ne consegue che, mentre nel caso di società semplice l'esclusione di uno dei soci è pronunciata dal tribunale, il diritto potestativo di recedere dall'impresa familiare spettante al titolare, e quello eventuale di determinarne la cessazione, è esercitabile attraverso una semplice manifestazione di volontà, salvo il diritto degli altri familiari alla liquidazione della loro quota e, in caso di recesso privo di giustificazione, al risarcimento del danno.
Altri rapporti lavorativi: la disciplina dell'impresa familiare sorge solo qualora tra i familiari non venga posto in essere un'altra tipologia contrattuale lavorativa che può essere subordinata, parasubordinata o autonoma secondo la volontà delle parti. In altre parole, se i familiari (moglie, figli, fratelli eccetera) che prestano attività nell'impresa di famiglia il cui titolare è ad esempio il coniuge, regolano i propri rapporti con riferimento a un contratto di lavoro specifico, si applica ai fini civilistici la disciplina di tale contratto (Cassazione 20070 dell'8 ottobre 2004). La giurisprudenza è incline a considerare automatica la tutela apprestata dall'articolo 230-bis Codice civile, ossia indipendentemente dalla volontà dei familiari partecipanti di ricorrervi (Cassazione 13 maggio 1997, n. 4171). In tutti i casi diversi dal precedente non è rilevante tanto la volontà delle parti nella qualificazione del rapporto come subordinato o autonomo, quanto le concrete modalità di svolgimento del rapporto che, nel caso del lavoro dipendente, deve essere imperniato sulla presenza della subordinazione, ossia dall'assoggettamento al potere gerarchico e di controllo del titolare. La Cassazione ha affermato che l'onerosità, caratteristica essenziale del rapporto di lavoro subordinato, «non ricorre nel caso in cui una determinata attività, ancorché oggettivamente configurabile quale prestazione di lavoro subordinato, non sia eseguita con spirito di subordinazione né in vista di retribuzione, ma affectionis vel benevolentiae causa, o in omaggio a principi di ordine morale o in vista di vantaggi che si traggono, o che si spera di trarre, dall'esercizio dell'attività stessa» (Cassazione 2195/92). Queste premesse comportano, sempre secondo la giurisprudenza, che nell'ipotesi in cui un familiare rivendichi, all'interno di un rapporto lavorativo intercorso con un proprio parente, lo svolgimento di attività lavorativa retribuita, debba essere fornita una prova rigorosa circa l'esistenza di un vincolo contrattuale subordinato o autonomo.
Per tutto quanto sopra riterrei che nel caso di specie la forma iuris più adeguata sia proprio il rapporto di impresa familiare, che dal punto di vista del riconoscimento della procedura, per ora ancora vigente, del biennio di pratica, è totalmente ammissibile.

AFK
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