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01 marzo 2008
Richiesta

Sono titolare di farmacia e proprietaria di una erboristeria-sanitaria (distante 6 km dalla farmacia) che vorrei trasformare in parafarmacia. Posso essere contemporaneamente direttrice della mia farmacia e responsabile della parafarmacia (dandone comunicazione alle autorità competenti)? Può il mio farmacista collaboratore alternarsi tra la farmacia e la parafarmacia?

Consulenza

La "trasformazione" di una sanitaria in una parafarmacia è operazione di per sè fattibile e non incontra particolari difficoltà di ordine giuridico. Il D.L. 223/2006, noto come Decreto Bersani, stabilisce le norme per poter vender alcune tipologie di farmaci (SOP ed OTC) in strutture diverse dalla farmacia. Tali norme prevedono l'obbligo, per l'apertura di esercizi commerciali diversi dalle farmacie che intendano vendere medicinali SOP ed OTC, di darne comunicazione al Ministero della Salute, ed alla Regione in cui ha sede l'esercizio. La comunicazione viene inviata pure al Servizio Farmaceutico dell'ASL competente per provincia, e all'Ordine dei Farmacisti della Provincia competente per territorio e all'AIFA. La vendita dei medicinali SOP ed OTC è consentita, negli esercizi commerciali diversi dalle farmacie, alla presenza e con l'assistenza personale e diretta al cliente di un farmacista iscritto all'Albo. Nulla osta a che il titolare di una farmacia sia anche titolare di una parafarmacia, laddove invece evidenzio un'incompatibilità tra la titolarità della farmacia e il rivestire il ruolo di farmacista responsabile di una parafarmacia, il tutto per estensione analogica di quanto previsto dall'attuale dire della Legge 392/91 circa la incompatibilità tra farmacista e esercizio di altre attività di lavoro autonomo. Per quanto riguarda il dipendente: L'art. 2103 c.c. dispone che " Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo". Quindi, la legge riconosce al datore di lavoro, nell'ambito del suo potere organizzativo ed entro i limiti che la legge stessa impone, la possibilità di variare le mansioni del lavoratore (ius variandi) e/o di trasferirlo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che nel caso di specie non ravvedo. Nell'esercitarlo il datore di lavoro è vincolato al rispetto dell'equivalenza delle nuove mansioni in riferimento a quelle precedenti e al rispetto del principio dell'irriducibilità della retribuzione. Al contrario nessuna norma vieta l'assegnazione a mansioni superiori del prestatore di lavoro. L'equivalenza delle mansioni va accertata non solo tenendo conto delle disposizioni dettate in merito dai Ccnl. Va effettuata una valutazione più generale tenendo conto che l'assegnazione alle nuove mansioni non deve compromettere la competenza e la professionalità acquisita dal lavoratore nel corso degli anni (Cass. n. 9002 del 3.7.2001). Si possono definire mansioni equivalenti quelle che consentono l'utilizzo e il perfezionamento del bagaglio di nozioni, esperienze e perizia acquisito nella precedente fase del rapporto anche se le nuove mansioni non risultino identiche alle precedenti (Cass. n. 5921 del 19.11.1984). I patti e accordi contrari al divieto di declassamento del lavoratore sono nulli. Bisogna rilevare che gli ultimi orientamenti giurisprudenziali, come la sentenza di cui sopra, riconoscono legittimo l'accordo in deroga quando il declassamento è l'unica alternativa al licenziamento e quando il lavoratore non sia più in grado di svolgere la sua mansione per sopravvenuta inidoneità fisica. In mancanza di una definizione legale è stata la giurisprudenza a fornirci una nozione di trasferimento : si ha trasferimento in presenza di uno spostamento definitivo e senza limiti di durata del lavoratore ad un'altra unità. Per unità produttiva si deve intendere «ciascuna sede, stabilimento filiale, ufficio o reparto autonomo» dell'impresa. Tale sarebbe, in sostanza, ogni articolazione autonoma dell'azienda, idonea, sotto il profilo funzionale, ad esplicare in tutto o in parte l'attività di produzione di beni o servizi dell'impresa, della quale costituisca una componente organizzativa. Pertanto, ai fini dell'applicazione della disposizione dell' art. 2103 c. c., occorre che la nuova sede alla quale sia stato destinato il lavoratore sia collocata in una diversa unità produttiva, non rilevando invece la distanza delle due unità produttive in termini geografici. Infatti, per la legge (art. 2103 di cui sopra) occorrono due presupposti per la validità del trasferimento: che il trasferimento avvenga da un'unità produttiva all'altra nell'ambito della stessa azienda e che le motivazioni si basino su comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Se il trasferimento avviene senza uno dei presupposti di cui sopra lo stesso può essere considerato nullo e pertanto il datore di lavoro sarebbe obbligato a ripristinare la situazione precedente. Ritengo quindi che lo spostamento possa essere solo occasionale non sussistendo le motivazioni di cui all'articolo 2103 nel caso de quo.

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