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05 dicembre 2023
di Alessio Zanghirati
Rif. rivista N6 NUOVO COLLEGAMENTO 2023
DOLORE CRONICO E SOFFERENZA PSICOLOGICA
Il dolore cronico si correla alla salute mentale e alla disabilità percepita. Per migliorare la qualità di vita del paziente, è spesso necessario non solo trattare il dolore e ciò che lo causa, ma anche affrontare direttamente il “comportamento” della persona in relazione ad esso.

Per poter comprendere il collegamento tra il dolore cronico e la salute mentale di chi ne soffre, è, in prima istanza, fondamentale andare a definire che cosa s’intenda per dolore cronico e quali siano le sue caratteristiche. Si tratta, stando alla definizione ufficiale, di una tipologia di dolore che persiste o recidiva per un periodo superiore a tre mesi, che persiste più di un mese senza soluzione di continuità, dopo la risoluzione di un danno tissutale acuto, o che si associa ad una lesione tissutale che non guarisce. Le cause alla base di questa presentazione possono essere malattie croniche, lesioni acute che poi cronicizzano poiché non risolte correttamente e un buon numero di disturbi caratterizzati da dolore primario.


Il dolore cronico va, a sua volta, suddiviso in due “sottocategorie”: dolore cronico primario e dolore cronico secondario; all’interno della prima categoria si possono ascrivere tutte quelle presentazioni in cui il dolore è causato da un danno tissutale acuto, che, pur risolto (andrebbe sempre indagato come e che tipo di tessuto cicatriziale abbia lasciato alle spalle) porta ancora alla percezione di dolore (queste presentazioni verranno descritte meglio in seguito parlando di sensibilizzazione centrale e periferica). 
All’interno della seconda categoria possiamo ascrivere, invece, tutte le presentazioni dolorifiche correlate alla presenza di patologie croniche che quindi portano al continuo invio di informazioni nocicettive dalla periferia ai centri superiori (il meccanismo alla base del mantenimento del dolore cronico verrà spiegato meglio, di seguito, parlando di sensibilizzazione centrale).

Le vie nocicettive e i meccanismi di trasmissione del dolore
Definito il dolore cronico e le sue “nomenclature” è necessario, per capire ad esempio come ci possano essere casi in cui un individuo soffra di dolore cronico in assenza di noxa patogena, fare una piccola digressione su quali siano e come funzionino le vie nocicettive e i meccanismi di trasmissione del dolore.
Nello specifico, le informazioni nocicettive vengono percepite a livello periferico, ad esempio a livello del ginocchio, da diversi tipi di recettori che si trovano nei tessuti: nocicettori (popolazione recettoriale specializzata per questo compito), chemocettori e propriocettori. Le informazioni nocicettive raccolte da questi, vengono poi trasmesse attraverso fibre afferenti mieliniche (nello stimolo dolorifico iniziale, trasmissione più rapida) e fibre afferenti amieliniche (stimolo del dolore cronico prolungato, trasmissione più lenta, meno dispendiosa e che diventa costante nelle cronicità), attraverso queste fibre le informazioni nocicettive arrivano al corno posteriore del midollo spinale e attraverso la via spino-tronco-encefalica arrivano al troncoencefalo e al talamo. 
A questi ultimi, vengono comunicate informazioni riguardanti lo stato del tessuto, le medesime informazioni, invece, attraverso la via spino-talamica, arrivano direttamente al sistema sovra-talamico cortico-limbico, dove all’interno delle cortecce cerebrali avviene l’elaborazione della nocicezione da stimolo chimico-fisico (sensazione dolorifica) a stimolo chimico fisico unito alla componente somatico emozionale (percezione dolorifica).


Distinzione fra sensazione dolorifica e percezione dolorifica 
Questa distinzione è fondamentale in quanto sottolinea come la componente somatico-emozionale, fatta di emozioni, ricordi e sensazioni correlate al dolore, influenzi in larga parte il dolore che viene, in ultimo, percepito ed espresso dal paziente. 
Risulta quindi evidente come la trasmissione nocicettiva rappresenti solamente una piccola parte dell’informazione dolorifica che viene percepita in ultimo dal paziente e per questo motivo, soprattutto nei casi di cronicità e quindi di sensibilizzazione centrale o periferica risulti molto importante prendere in considerazione un numero ben superiore di fattori rispetto al semplice stimolo nocicettivo. 
Quando siamo in presenza di una noxa patogena o di un danno tissutale prolungato nel tempo, infatti, il nostro corpo per rendere meno dispendiosa da un punto di vista energetico e più dettagliata la comunicazione nocicettiva, procederà ad attuare alcuni cambiamenti a livello di espressione recettoriale periferica e di espressione dei neurotrasmettitori (che portano il messaggio dalla periferia al centro). 


Questo processo prende il nome di “sensibilizzazione periferica”, utilizzando come esempio una distorsione alla caviglia che ha comportato l’elongazione di legamenti e tendini del comparto laterale di questa articolazione (e di conseguenza una reazione infiammatoria): fino a quando il danno tissutale non sarà del tutto ripristinato, il nostro corpo attuerà delle modificazioni a livello recettoriale (nocicettori, chemocettori e propriocettori) abbassando la loro soglia di scarica e rendendo quindi questi ultimi più sensibili a tutti gli stimoli nocicettivi, anche a quelli che potenzialmente non dovrebbero esserlo. La stessa cosa, unita ad un aumento di neurotrasmettitori eccitatori e ad una diminuzione di quelli inibitori accadrà a livello del corno posteriore del midollo spinale, comportando, in ultima analisi, un trasporto di segnali nocicettivi per stimoli fisici e chimici che in fisiologia non dovrebbero essere processati come stimoli algici. Questa costante trasmissione di segnali nocicettivi comporterà un continuo sostegno all’infiammazione tissutale già presente, risultando in iperalgesia e minori probabilità di restitutio ad integrum del tessuto leso (fattore predisponente per dolore cronico e sensibilizzazione centrale).
Qualora, infatti, la sensibilizzazione periferica sia mantenuta nel tempo oltremodo è possibile che si instauri, in seguito ad altri cambiamenti nella trasmissione nocicettiva, un quadro di sensibilizzazione centrale. Essa tende ad instaurarsi per rendere ancor meno dispendiosa e ancora più precisa la trasmissione del dolore, infatti, “l’ambiente infiammatorio” presente nella nostra caviglia di cui sopra, verrà replicato a livello delle corna posteriori del midollo spinale, dove avverrà una maggior espressione di neurotrasmettitori infiammatori e contestualmente la loro soglia di scarica sarà abbassata. Inoltre, la popolazione di neurotrasmettitori inibitori, che quindi dovrebbero mitigare e compensare quella eccitatoria, andrà incontro ad una riduzione di produzione e di funzionalità e per di più, diminuirà anche il controllo inibitorio della sostanza grigia di Rolando.


Tutto ciò comporterà, in assenza di un stimolo atto ad interrompere il costante stimolo nocicettivo derivante dal tessuto, ad una modificazione sostanziale ed irreparabile delle vie afferenti di trasmissione del dolore: provocando allodinia, ipersensibilità ai tessuti circostanti (anche in assenza di processi infiammatori) e dolore anche in assenza di noxa patogena (dolore primario); lo stimolo nocicettivo, infatti, sarà sostenuto dalla ormai costante presenza di stimolo e sostanze pro-infiammatorie nel tessuto. 
Ci troveremo quindi di fronte, in questi casi, ad una continua infiammazioni tissutale, in assenza di uno stimolo esogeno che la possa scatenare e mantenere ma sostenuta in maniera endogena. 
Per di più, la modificazione delle vie afferenti del dolore, andra anche a modificare il processo di elaborazione dello stimolo nocicettivo in dolore, coinvolgendo maggiormente le componenti corticali ed emozionali, associando allo stimolo nocicettivo una crescente componente psicosomatica.

La disabilità percepita 
Dopo aver definito la fisiopatologia e come si mantiene il dolore cronico, è necessario andare a definire quale sia il suo prodotto finale e come incida sulla quotidianità del paziente stesso. Per farlo è necessario introdurre il concetto di “disabilità percepita”.
A tal proposito possiamo definire la disabilità come una limitazione non necessariamente strutturale dell’individuo, che però sfocia sempre in una limitazione nella sua funzione e che, di conseguenza, va a minare come quest’ultimo si relaziona con l’ambiente che lo circonda e questo esso sia poi costretto ad adattarsi all’ambiente stesso. 
La percezione è invece descrivibile come una “definizione personale”, che per quanto riguarda il dolore, ad esempio, copre un ampio spettro di caratteristiche ed è influenzata sia dall’intensità di quest’ultomo che dalla capacità di esprimere a parole quanto si stia provando.
Inoltre, è imprescindibile sottolineare come la cronicità vada di pari passo con la disabilità percepita e come sia proprio la percezione di quest’ultima ad influenzare maggiormente la quotidianità del paziente e, di conseguenza, la sua qualità di vita. 

Gestione del dolore

In questo scenario risulta fondamentale sin dai primi giorni, settimane dopo l’inizio di dolore acuto non soffermarsi su cure “palliative” e solamente sintomatiche ma su trattamenti che possano andare a influenzare positivamente la prognosi andando ad affrontare direttamente le cause alla base del dolore e non solo i sintomi risultanti.
Nella cronicità, invece, la gestione risulta più complessa essendo in esso coinvolta una maggior componente corticale ed emozionale, risultando quindi fondamentale non solo sottoporsi a trattamenti che propongano di “fronteggiare” direttamente le cause fondanti il dolore, ma sarà necessario andare anche ad affrontare la sfera biopsicosociale del paziente con approcci che possano modificare i suoi comportamenti e “pensieri” nei confronti del dolore stesso e che quindi influenzino positivamente la disabilità percepita dal paziente.

L'approccio psicologico

di Paola Zaira Sciutta


Il dolore cronico influenza inevitabilmente la qualità di vita di chi ne soffre. Le sfere lavorativa, relazionale e di coppia risentono tutte delle limitazioni funzionali cui sono sottoposti questi pazienti. Il dolore ha anche una forte componente soggettiva che influenza il modo in cui ci relazioniamo a esso. Se in tutte le malattie è fondamentale una graduale accettazione, forse in quelle croniche questo è ancor più vero. Si tratta, infatti, di una situazione con cui la persona dovrà convivere per il resto della sua vita. 
Pensieri come “ma perché proprio a me”, “cosa ho fatto di male per meritarmi questo” o “la mia vita è rovinata” non fanno altro che raddoppiare la sofferenza della persona. È la cosiddetta seconda freccia. 
Di che si tratta? Immaginiamo di venire colpiti da una freccia: questo provocherà un intenso dolore fisico. Ma se a questo aggiungiamo pensieri di autocommiserazione e rabbia per quello che ci è accaduto, allora è come se fossimo colpiti da una seconda freccia. 
La buona notizia è che questa seconda freccia si può evitare. Come?
Essere in balia di questo dolore e non poter fare nulla ci fa sentire come se stessimo annegando travolti da un mare di angoscia e stress. Ma per citare il grande Jon Kabat-Zinn, considerato il padre della mindfulness, “se non puoi arginare le onde, impara a fare surf”. 
Praticare la mindfulness può essere un ottimo modo per proteggersi dal vento che agita la nostra mente; col tempo le turbolenze potrebbero placarsi per mancanza di un’alimentazione costante. Ma indipendentemente da quanto si possa fare, i venti della vita torneranno a soffiare. Meditare significa diventare consapevoli di questa realtà e tenerne conto. Acquisire consapevolezza di ciò che ci sta intorno produce quella che viene chiamata una disidentificazione. Ci rendiamo conto che siamo molto di più dei nostri pensieri, che anche se proviamo dolore noi non siamo il nostro dolore. I benefici di ciò sono evidenti e supportati ampiamente dalla letteratura in merito. Le moderne tecniche di neuroimaging hanno dimostrato che grazie alla pratica il cervello si modifica nella sua struttura. Altre ricerche hanno evidenziato i benefici della mindfulness: 
• Diminuzione dello stress.
• Diminuzione del dolore.
• Migliore conoscenza e gestione delle proprie emozioni.
• Aumento della flessibilità mentale e coraggio nell’uscire dalla nostra zona di comfort .
• Maggiore resilienza nei confronti degli eventi difficili.
• Aiutare a evitare le ricadute depressive.
• Migliora il sistema immunitario. 
Per concludere, la mindfulness non è di certo la panacea per tutti i mali. Tuttavia, potrebbe aiutare nella diminuzione del dolore e nel coltivare la compassione verso noi stessi. 
Vale la pena provare. 

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