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LA VULNERABILITA' DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE
Il 2023 è stato caratterizzato da un gran numero di dibattiti pubblici attorno al tema della “crisi di sistema” che interessa il Ssn. Dopo l’emergenza Covid, infatti, molti tra i nodi strutturali che prima venivano spesso ignorati sono venuti al pettine.
Oggi, non ci si può più nascondere rispetto alla necessità di porre rimedio, e in tempi rapidi, ad una serie di situazioni che, nel loro insieme, concorrono ad un ormai evidente fallimento delle prerogative che il Ssn, fin dalle sue origini, si è posto e ha saputo rispettare: prima tra tutte l’accesso universalistico alle cure e alla prevenzione.
Le liste d’attesa e i ritardi diagnostici sono forse il sintomo più evidente di questa crisi, con le persone costrette, quando possono farlo, a ricorrere al privato per non aspettare tempi biblici. Chi non se lo può permettere, duole dirlo, è costretto a rinunciare ai percorsi diagnostici e tarapeutici necessari.
Ma cosa è accaduto? Quali sono i problemi da superare?
Un’analisi del perché, oggi, ci si trovi in questa situazione richiederebbe spazi ben più ampi. Per adesso, osserviamo la fotografia dello status quo e analizziamo alcuni tra i dati che abbiamo a disposizione. Per esempio, nello scorso mese di maggio, il Forum delle 30 società scientifiche dei clinici ospedalieri e universitari (Fossc) ha evidenziato come in Italia manchino 30 mila medici ospedalieri, 70 mila infermieri e 100 mila posti letto.
Questi dati, da soli, spiegano gran parte del problema. Risulta evidente che un sistema sanitario in sofferenza rispetto al numero dei medici e degli operatori sanitari difficilmente può offrire risposte adeguate.
Come risulta chiaro che, in assenza di letti per i ricoveri post operatori, le operazioni devono essere rimandate.
Ma è vero che in Italia non operano abbastanza medici ed infermieri? Oppure i camici bianchi ci sono, ma rifuggono sempre più dai pronto soccorso e dagli ospedali pubblici in generale?
Secondo i dati presentati dal Fossc, gli specialisti in Italia sono 60 mila in meno rispetto alla Germania e 43 mila in meno rispetto alla Francia, mentre nei pronto soccorso ne mancherebbero 4200 con un tasso di dimissioni che nel 2022 ha toccato le 100 unità mensili portando alla necessità di assumere medici a gettone provenienti, spesso, da Paesi extraeuropei.
Molti esperti, tuttavia, sostengono che in Italia non ci sia una carenza di medici a livello assoluto, ma siano pochi e in costante riduzione solo coloro che operano in ambito pubblico. Alcune fonti, infatti, evidenziano come nel nostro Paese ci siano più di 4 medici ogni mille abitanti, contro una media europea di 3,6. Diverso il discorso relativo al personale infermieristico, con una media italiana di 6,2 per mille abitanti contro gli oltre 12 di Francia e Germania. La vera carenza, dunque, non risiederebbe nel numero totale dei medici, ma nel numero di medici e di infermieri impiegati nel Ssn.
Come fermare, dunque, la migrazione dei medici verso il privato o, peggio, verso l’estero?
Anzitutto, va detto che questa tendenza rischia di autoalimentarsi: maggiore è la carenza di medici nei pronto soccorso e negli ospedali, maggiore diventa il carico di lavoro per chi resta, con turni talvolta insostenibili e con situazioni grottesche e paradossali come quelle di medici che, per avere coperto turni e garantito un servizio, sono poi stati multati per “avere lavorato troppo”. Basta sentire gli specialisti della medicina d’urgenza per rendersi conto della situazione: “per noi il Covid non è mai finito: ora stiamo lavorando addirittura peggio di quando eravamo in emergenza” ha affermato un rappresentante di categoria in una nota trasmissione radiofonica di qualche settimana fa. Se aggiungiamo a questi disagi organizzativi una retribuzione non sempre gratificante, specie per i medici dei pronto soccorso, ci rendiamo conto di essere al centro di una sorta di tempesta perfetta e non ci possiamo meravigliare se molti camici bianchi se ne vanno dal pubblico e si rivolgono al privato.
Nel 2023, quasi il 70% dei posti disponibili per la medicina d’urgenza non è stato coperto, con gli specializzandi che, pur attratti dagli stimoli professionali offerti da questa branca della professione, rifuggono le condizioni di lavoro che si prospetterebbero se facessero questa scelta. Una situazione, questa, che deve essere affrontata con politiche adeguate per incentivare i medici e, dall’altro lato, con soluzioni innovative finalizzate a non intasare i pronto soccorsi. Per esempio, le farmacie e la medicina territoriale potrebbero diventare il riferimento per alcune pratiche come la cura di piccole ferite o la gestione, anche avvalendosi della telemedicina, di molte altre situazioni ambulatoriali o di diagnostica semplice.
Altra soluzione nel breve e medio termine potrebbe essere rappresentata da una maggiore integrazione delle migliaia di medici specializzandi che potrebbero coprire in parte le attuali carenze di organico.
Altri propongono il superamento del numero chiuso alle università di medicina. Insomma, le soluzioni per affrontare la carenza di medici possono essere individuate, ma, richiedendo tempo per andare a regime, occorrerebbe avviarle al più presto avanzando proposte concrete al legislatore in luogo dei soliti dibattiti che talvolta assumono una connotazione piuttosto retorica e poco pratica.
Rispetto alla carenza di posti letto, il problema è forse ancora più complesso. In 10 anni, tra il 2011 e il 2021, sono stati chiusi 125 ospedali, ovvero il 12% di tutti gli ospedali italiani.
Da 1120 si è passati a 995 strutture ospedaliere, con ben 84 ospedali pubblici in meno.
Secondo le visioni più ottimistiche, la soluzione a questo problema arriverà dalle novità contenute nel Pnrr, prima tra tutte la maggiore territorializzazione dell’assistenza sanitaria, con la nascita di circa 1350 Case di Comunità.
Tuttavia, viene da chiedersi, dove si troverà il personale medico e infermieristico una volta costruiti i muri di queste nuove Case, vista anche la progressiva riduzione dei medici di medicina generale alla quale stiamo, purtroppo, assistendo?
In definitiva, la crisi che il nostro Ssn sta attraversando è talmente complessa che non basteranno né le generiche dichiarazioni di intenti riferite ad una nuovo modello di collaborazione tra pubblico e privato né basteranno le novità che saranno introdotte da Pnrr.
Prima di tutto questo serve un vero e proprio ripensamento strutturale e ideologico dell’intero sistema.
Il Ssn che abbiamo conosciuto nei decenni passati e che oggi difendiamo, elogiando nei dibattiti pubblici la sua vocazione universalistica, è nato da una visione culturale e politica di ampio respiro ed è stato il frutto migliore di quel dialogo costruttivo che ha visto in esponenti politici come Moro e Berlinguer i suoi più illuminati rappresentanti.
Alla fine degli anni ‘70 è stato individuato un modello sociale che, per mille ragioni, oggi non è più sostenibile. Difenderlo a parole non basta, continuare ad elogiare un approccio universalistico che, nei fatti, non c’è più non serve a nulla. Occorre avanzare proposte concrete, ma solo dopo avere individuato un modello culturale e politico ben preciso.
E un primo, fondamentale, passaggio culturale potrebbe essere quello di smettere di considerare la sanità come un’industria e la cura come un bene di consumo al pari di molti altri.
E' questa stortura ideologica che ha portato, negli anni, a considerare la salute un costo e l’assistito un soggetto da catalogare in prestazioni e in Drg. Nati per uniformare i costi dei ricoveri ospedalieri e garantire un utilizzo di risorse univoco, alla fine dei conti i Drg rappresentano nulla più che la quantificazione di un costo pubblico e di un possibile guadagno privato. Questo è solo un esempio di come la sanità abbia assunto, nel corso degli anni e senza che ce ne rendessimo conto, un approccio sempre più ragionieristico e sempre meno universalistico, se vogliamo continuare ad usare questa parola, o sempre meno umanizzato, se vogliamo vedere le cose con gli occhi del cittadino e non del contabile.
è vero: per delineare un nuovo modello sanitario, occorre, inevitabilmente, rimettere ordine tra pubblico e privato, delineando le rispettive competenze, ripensando i rapporti e sviluppando nuove e sane forme di collaborazione.
Tuttavia, per farlo serve una visione politica e un modello ideologico condiviso che, ad oggi, non si intravede nemmeno.
Le risorse messe sul piatto dal Governo per fare fronte al problema delle liste d’attesa sono di certo importanti.
Molto probabilmente verranno utilizzate per acquistare prestazioni e, proprio per questo, non basteranno ad invertire una tendenza in atto da diversi anni e che ha portato il Ssn alla crisi: considerare le prestazioni come fine a sé stesse, caratterizzate da un costo di mercato e quindi accomunate ad ogni altra tipologia di bene o servizio.
La domanda che la nostra categoria ha oggi l’occasione di porsi non è semplicemente relativa a quali servizi possiamo erogare al cittadino per conto del Ssn. Prima ancora, dovremmo chiederci se la nostra storia, la nostra esperienza di contatto con il pubblico, la nostra preparazione e la nostra abitudine ad entrare in una vera relazione con il cittadino possano rappresentare un terreno dal quale partire per contribuire a rendere migliore la salute degli assistiti, ovvero di noi tutti.